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Cosa ci resta del lockdown?

Un esercizio di pensiero per capire cosa vogliamo tenere e cosa lasciare.

Diciamocelo: siamo meno lucidi che mai.

Ora che siamo entrati nella fase 2 (ma facciamo anche 3) più che la libertà di movimento, è aumentata l’incertezza. Altro che boccata d’ossigeno!
Basta seguire il dibattito sulla riapertura della Scuole per capire il disagio, la confusione, la sfiducia, lo spaesamento che colpiscono tutti indistintamente, dalle istituzioni ai singoli cittadini. Sarà la stanchezza, sarà l’enorme complessità del problema, fatto sta che si brancola nel buio più totale e di soluzioni percorribili che tengano conto dei bisogni e dei diritti di tutti (ma soprattutto dei nostri bambini) nemmeno l’ombra.

E allora? Che si fa?
Non ne ho la più pallida idea.

Ma voglio comunque condividere con voi ciò che sto provando a fare io da quando tutto questo è cominciato. Si tratta di un esercizio di pensiero e di introspezione, quello che non si ha mai il tempo di fare e che invece è il punto di partenza per mettere in campo processi di trasformazione e di cambiamento reale nelle nostre vite.

L’ho fatto provando a rispondere a questa unica e sola domanda: cosa mi resta? E cioè, al netto dello smart-working, della crisi economica, della Didattica a Distanza, delle misure di sostegno, della clausura forzata, della mascherina sì o della mascherina no, delle vacanze “wow” o di quelle “discrete”, della nuova possibile ondata o anche no, cosa mi resta?
Cosa mi resta di questi mesi in cui mi sono sentita impaurita, reclusa, impotente, arrabbiata, disillusa, ma nello stesso tempo a tratti incredibilmente serena, ottimista, paziente, lucida, razionale? Quante di queste cose nonostante-tutto-accadute scivoleranno via da noi col primo bagno di questa strana estate arrivata senza preavviso e quante, invece, resteranno?

L’elenco dei miei “resta”

Questo il mio personalissimo elenco. Ne ho riportato qui solo una parte. Sono i miei “mi resta” di mamma ed educatrice che vorrei condividere con voi:

  • resta il tempo vissuto con mio figlio… tanto, lento, intimo, prezioso;
  • resta la ricetta del pancake perfetto che mio marito ha imparato a fare per le nostre colazioni, così che il risveglio fosse sempre profumato di burro fuso e amore;
  • resta la scoperta che prima del lockdown ci eravamo mancati e non lo sapevamo nemmeno;
  • resta “il nostro posto segreto”, quello che io e mio figlio abbiamo scovato a soli dieci minuti a piedi da casa: la distesa di un piccolo campo di grano circondato da vigneti, immerso nel silenzio e nei ricordi della mia infanzia;
  • resta il tramonto atteso insieme che ci annunciava l’ora di cena, il segnale che nelle giornate di sole ci diceva: “è ora di tornare a casa”;
  • restano i 90 pranzi e le 90 cene preparate e messe in tavola più in questi 3 mesi di quarantena che in 16 anni di matrimonio. Una routine che sa di calore, di nido, di sicurezza;
  • restano i libri letti, quelli ri-letti e quelli non letti, cumulati sui nostri comodini: uno per me, uno per mio figlio e uno per entrambi; e resta quella promessa: “un giorno saranno tutti tuoi!”;
  • resta quella riunione interminabile con i miei colleghi in cui ci interrogavamo sulla didattica a distanza possibile e su quella impossibile, su cosa potesse (ancora) significare fare teatro, educazione, comunità pur in assenza di corpi, di mani, di respiri, di sguardi;
  • resta l’ingiustizia che ogni genitore-lavoratore dovrebbe combattere ovvero che non si fanno figli per farli crescere dagli altri; resta che il lavoro nobilita, ma a volte stanca e spesso è ladro che ruba le lunghe passeggiate senza mèta, il caffè con gli amici che non vedi da tanto, quel pic-nic sul lago che da troppo tempo sta nella lista delle cose da fare con chi si ama;
  • resta la certezza, toccata con mano, che non sarà un virus a distruggere questo pianeta o a disumanizzare i nostri figli e i figli dei nostri figli, ma l’incapacità di immaginare e di pensare ai ‘vuoti’ non come ‘assenza’, ma come ‘possibilità’;
  • in una sola parola resta il cuore, come scriveva Quasimodo in quella meravigliosa poesia che casualmente e provvidenzialmente mi sono ritrovata tra le mani all’inizio di questa pandemia.

“[…]
Qui nero il fumo degli incendi
secca ancora la gola. Se lo puoi,
dimentica quel sapore di zolfo
e la paura. Le parole ci stancano,
risalgono da un’acqua lapidata;
forse il cuore ci resta, forse il cuore…”.

Eccola la risposta, quindi, da cui ri-partire. Il cuore.
Forse… il cuore…

Alessandra Maltempo

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