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Il libro utilizzato durante l'esercizio di immaginazione su fiabe e miti nonché quello della foto è Ulisse nell'isola dei ciclopi della collana "Carte in tavola" -  Illustrazioni: Sophue Fatus -  Edizioni Fatatrac

Fiabe e miti al centro della narrazione infantile

Perché fiabe e miti dovrebbero essere al centro della narrazione infantile?
La riflessione di Alessandra Maltempo sulla necessità dei bambini di avere e sviluppare un’immaginario fantastico a partire da fiabe e miti.

Nei laboratori teatrali di quest’anno rivolti ai più piccoli, stiamo costruendo tutti i nostri incontri partendo dal mito di Ulisse. Gli allievi-attori ancora non sanno che è questa la storia da cui i loro maestri traggono linfa per il lavoro che di settimana in settimana da oltre un mese facciamo insieme. Siamo ancora in una fase che definiamo ‘esplorativa’, in cui, cioè, vogliamo capire quanto nei bambini c’è (ancora) di quell’immaginario potentissimo che la storia di Omero porta con sé da millenni.

Attraverso alcune immagini evocative (assolutamente non didascaliche ed esplicite, quindi) e un esile canovaccio di storia (un ragazzino che si mette in viaggio alla ricerca di un padre misteriosamente scomparso) stiamo provando a immaginare il nostro viaggio.
Come evocate da un ricordo ancestrale, sono venute fuori scene ambientate in caverne buie, isole lontane, paludi e foreste in cui si incontrano  giganti e nani, mostri marini e oggetti magici.

In questo affascinante e utile esercizio di immaginazione, ecco però fare di tanto in tanto capolino la cronaca, i social network, i personaggi di serie tv, i video-giochi. In alcuni momenti e per alcuni bambini sono loro (sempre loro!) gli unici protagonisti e scenari possibili; non c’è alcuna possibilità di virare (restando nella metafora del viaggio per mare) verso altre destinazioni.

La necessità di un immaginario fantastico

Intendiamoci: so che i bambini non vivono in una bolla di vetro, avulsi dalla realtà, e che quest’ultima influisce sul loro sentire e, quindi, sul loro immaginario. Ma non è questo il punto. Il punto è che durante un processo creativo, la realtà dovrebbe essere il punto di partenza per un’elaborazione (quella dell’attività creatrice, appunto) che i suoi elementi poi combina e trasforma in qualcosa di nuovo e, anche, di fantastico.

Ciò che quindi noto mancare spesso in molti bambini è proprio la familiarità con un “gioco” (quella fantastico) che per loro dovrebbe essere particolarmente congeniale.
Ciò che vedo (come scrivevo anche nell’articolo “Chi ha paura del lupo cattivo?”) è come e quanto i bambini troppo presto si esprimano attraverso simboli, scenari, linguaggi mutuati da una realtà che dovrebbe essere ad esclusivo appannaggio degli adulti.

E questa realtà – che precocemente e prepotentemente  irrompe nella loro quotidianità – non li rende più “svegli”, più maturi, più consapevoli, ma li priva illegittimamente della loro infanzia. Strappa violentemente dalle loro mani l’unica lente con cui possono guardare il mondo senza sentirsi piccoli, indifesi, spaventati, impotenti: quella della narrazione simbolica.

Quest’ultima, mirabilmente custodita nella gloriosa tradizione di miti, fiabe e leggende, è infatti l’unico “luogo” possibile in cui un bambino può interrogarsi sul senso della vita e comprenderne i conflitti e le sue possibili soluzioni senza sentirsi smarrito, confuso, in una sola parola: schiacciato.

L’indagine e le possibili risposte, nonché il senso di rassicurazione sui grandi temi dell’esistenza, stanno infatti tutti lì dentro, ma con una enorme differenza rispetto ad altri tipi di narrazione: la presenza di immagini archetipe e di un linguaggio esclusivamente simbolico. Non c’è cronaca, attualità, contesto. Ecco perché fiabe, leggende e miti da sempre mettono il lettore o l’ascoltatore di fronte a un doppio livello di comprensione: uno conscio (cioè capace di tradurre i simboli e le metafore in essi contenuti), l’altro inconscio (ovvero di mera risonanza e sollecitazione emotiva). 

“Il mito è bisogno di spiegare la realtà, di superare e risolvere una contraddizione della natura (come nasca il primo uomo, ad esempio), il mito è spiegazione di un rito, di un atto formale che corrisponde a esigenze della tribù (invocazione della pioggia), il mito è struttura delle credenze di un gruppo, di un’etica  [...] Ma come dice la parola, il mito è innanzitutto un racconto: c’è una storia da presentare, che ha lati terribili, ma anche spesso risvolti patetici o sorridenti, ci sono personaggi in azione, una trama che si snoda”.

(dalla prefazione di Umberto Albini al libro “I Miti Greci” di Robert Graves)

L’infanzia creatrice di miti

L’infanzia, in questo senso, non solo è naturalmente predisposta a coglierne i significati e a decifrarne i simboli, ma è essa stessa potenziale creatrice di miti.

Questo perché, se ci pensiamo, il punto del vista del bambino, rispetto ai grandi temi dell’esistenza, è lo stesso dell’uomo primitivo che il Mito ha avuto necessità di creare. Il bambino, cioè, pur sentendo una simbiotica connessione con la Natura e un forte senso di appartenenza al Cosmo, non è in grado di spiegarne i suoi accadimenti e i continui conflitti fra il Sé e l’Altro, fra il Dentro e il Fuori. Per comprendere (ma anche per governarsi e rassicurarsi)  attraverso il gioco simbolico il bambino fa così appello al suo pensiero magico, a un logòs metaforico, a un’iconografia fantastica; strumenti, quest’ultimi, di cui però viene privato, venendogli proposte le narrazioni realistiche della contemporaneità.

C’è un episodio accaduto in una delle ultime lezioni con un piccolo gruppo di bambini di 8 e 9 anni che trovo particolarmente emblematico.

Chiedo di lavorare a una scena ambientata in un luogo scelto da loro: “Il regno piumato”. Li invito a decidere perché si chiama così, da quale popolo o creature è abitato e perché alcuni esseri umani sono lì prigionieri.
Dopo un po’ si avvicina una bambina e mi chiede: “Maestra, è vero che possiamo pensare anche a cose fantastiche?” “Certo che potete!” rispondo “Perché me lo chiedi?” “Perché B. vuole fare che siamo prigionieri per colpa del coronavirus”.

Ecco: il bisogno di questa bambina di tradurre con un’immagine simbolica (‘fantastica’, come l’ha definita lei stessa) questo senso di prigionia da un lato, e la schiacciante motivazione ‘reale’ proposta dall’altra (senza alcuna possibilità di elaborazione verso una catarsi), è a mio avviso particolarmente significativo ed eloquente.

È il risultato di un mondo adulto che anziché chinarsi verso l’infanzia, la strattona a sé, negandole un tipo di narrazione considerato troppo lontano e incomprensibile, senza però rendersi così che è invece quanto di più vicino e leggibile alla condizione dell’essere bambino.

 

Riferimenti:

Il libro della foto è Ulisse nell’isola dei ciclopi della collana “Carte in tavola” Miti e leggende –  Illustrazioni: Sophie Fatus –  Edizioni Fatatrac

Alessandra Maltempo

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