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figlia arrabbiata seduta sul divano con sua madre padre usando tablet digitale cellulare casa

Genitori iperconnessi. Quando l’educazione al digitale comincia dagli adulti

Torniamo a raccontarvi del progetto europeo Erasmus+ Surviving Digital (ve ne abbiamo già parlato in due articoli qui e qui), per il quale come Pot in Pot / Accademia degli Stracuriosi stiamo sperimentando un percorso di formazione rivolto ai genitori su come educare i propri figli all’utilizzo degli schermi.

Il ruolo che svolgiamo come modelli per i nostri figli è di fondamentale importanza nella loro crescita e sviluppo. La società ipertecnologica in cui viviamo richiede una riflessione critica su come gestiamo il tempo davanti ai dispositivi elettronici e su come ciò influenzi il comportamento dei nostri figli.

Due domande da cui partire

La nostra formazione parte necessariamente, nel corso del primo incontro, da un gioco molto semplice per mettere a confronto “percezione” e “realtà”, attraverso due domande rivolte ai partecipanti.

  • Ritieni di aver sviluppato una seppur lieve forma di dipendenza dagli schermi?
  • Quanto tempo della tua giornata pensi di trascorrere davanti agli schermi (escludendo l’uso per motivi di lavoro)?

Un’applicazione per prendere consapevolezza

Dopo aver ricevuto un primo feedback, chiedo ai genitori di prendere i propri cellulari, di andare nelle “impostazioni” e di spostarsi sulla voce “Benessere digitale e controllo dei genitori” (conoscete questa applicazione presente nei telefoni Android?). La reazione a ciò che i partecipanti vedono è di incredulità. In molti casi, scoprono, infatti, che il tempo di connessione a social network, WhatsApp, YouTube, Amazon, ecc. è il doppio di quello che immaginavano o comunque più alto della loro percezione.

Si tratta di uno strumento semplicissimo, che in tanti abbiamo a portata di “dito”, ma in pochi utilizziamo, per capire quanto tempo di una giornata o di una settimana dedichiamo allo smartphone. L’applicazione, infatti, non solo registra il tempo di utilizzo giornaliero di ciascuna applicazione installata sul telefono, ma fa anche un calcolo del tempo medio settimanale, confrontandolo con quello della settimana precedente.

Quando poi cominciamo a discutere sul tempo trascorso davanti allo smartphone, riflettendo su come lo utilizziamo esattamente, su quale sia l’effettiva utilità delle nostre azioni, valutando vantaggi e svantaggi delle applicazioni che usiamo, facendo mente locale su dove e quando ci connettiamo, ecco che inizia a delinearsi un quadro abbastanza inquietante.

Cosa ci perdiamo mentre siamo connessi?

Il terzo e ultimo passaggio è invitare i partecipanti a fare un elenco di tutte quelle cose che ci piacerebbe fare, ma che ci ripetiamo continuamente di non riuscire a fare per mancanza di tempo. Ecco qualche esempio:

  • C’è un’amica che non vedo da tanto, ma non non trovo mai un attimo per invitarla a prendere un caffè.
  • Vorrei fare un po’ di attività fisica, ma il lavoro e la famiglia assorbono il 100% della mia giornata.
  • Desidero tanto trascorrere più tempo con mio figlio, ma le mille cose da fare dirottano sempre le mie energie da un’altra parte.
  • Mi piacerebbe dedicare l’intero week-end esclusivamente alla famiglia, magari organizzandosi per fare delle cose tutti insieme, ma la stanchezza accumulata durante la settimana ci impigrisce.

E così via.

Ora, proviamo a ripensare a tutto questo alla luce di ciò che ci dice il nostro cellulare. Quanto del tempo dedicato agli schermi (ma sarebbe più corretto dire “tempo rubato dagli schermi”) poteva essere utilizzato per soddisfare quei bisogni? Sicuramente, una buona parte.

Apriamo uno spazio di introspezione

A questo punto, qualcuno esclama: “È che spesso lo facciamo anche per rilassarci un po’”. Ma siamo davvero sicuri che scorrere la bacheca del proprio profilo social, guardare stories e video di amici e influencer, fare shopping compulsivo online sia rilassante?

Anche questa volta è una domanda ad aprire uno spazio di introspezione: “Come ti senti dopo aver scrollato per 30 minuti, un’ora, due ore?”. La risposta è “apatico” o comunque si denota una certa fatica a tornare con sufficiente energie sul resto.

Chiediamoci anche: “Ciò che abbiamo guardato era ciò di cui avevamo realmente bisogno? Nel farlo, abbiamo davvero acquisito una nuova competenza o conoscenza? Ma soprattutto, siamo davvero stati noi a scegliere di guardare quel video o di leggere quella notizia o ci siamo capitati per caso? Era proprio quello che stavo cercando nel momento in cui ho sbloccato il telefono?”

Un genitore iper-connesso è un modello sbagliato per i bambini

Cosa c’entra tutto questo con i nostri bambini? C’entra, e parecchio pure, poiché, come ci dice la scienza, se un genitore è iper-connesso, sarà molto più alto il rischio di una sovraesposizione da parte dei bambini, che hanno in noi un modello sbagliato.

Faccio un esempio semplicissimo. A tutti voi sarà capitato di osservare un bambino di pochi mesi (nostro figlio stesso, magari) che mostra una forte attrazione verso il cellulare. Molti genitori infatti dicono: “Mio figlio, nonostante sia così piccolo, già mostra un interesse molto forte per gli schermi”.

A questo punto l’obiezione è: ma quando il bambino canalizza la sua attenzione sul cellulare del genitore, non è perché in quel momento è il genitore a utilizzarlo? Se un bambino osserva un adulto focalizzare tutta la sua attenzione su uno schermo anziché su di lui, non sarà ovviamente e naturalmente portato a voler condividere quell’oggetto?

E quando i nostri bambini saranno un po’ più grandi, come sarà mai possibile tenerli lontani da un cellulare, se vedono continuamente il proprio genitore fare tutt’uno con quello strumento? E ancora: quando sarà adolescente, come gli si potrà chiedere di limitare l’uso del cellulare, se noi genitori per primi siamo iper-connessi?

Come la tecnologia interferisce nella relazione genitori-figli

A questo punto è bene che i genitori attivino un altro momento di auto-riflessione su quello che gli scienziati chiamano tecnoferenza ovvero l’interferenza che quotidianamente la tecnologia ha nella relazione fra genitori e figli.

Le domande che possiamo farci sono le seguenti:

  • Mentre allatto, uso il cellulare?
  • Durante i pasti rispondo al telefono o controllo le chat?
  • Quando trascorro del tempo con mio figlio (giocando, guardando un film, facendo una passeggiata) la nostra esperienza condivisa è spesso interrotta dall’uso del cellulare?
  • Mentre facciamo qualcosa insieme quante volte prendo il cellulare per scattare delle foto? Una? due? Dieci? Venti? Cento? Se sì, le riguardo subito e magari le condivido in quello stesso momento?
  • Quante volte nell’arco di una giornata rispondo con ‘Aspetta!’ alle richieste di attenzione di mio figlio, perché magari in quel momento sto rispondendo a un messaggio o controllando una notifica sul mio profilo social?
  • Tengo mai il cellulare fuori dalla portata di mano (magari lasciandolo in borsa o riponendolo in un’altra stanza) quando sono a casa con mio figlio?
  • Io e il mio partner, abbiamo mai stabilito delle regole per limitare l’uso del cellulare (sia a casa che fuori casa) quando stiamo con i nostri figli?

Il primo passo per migliorare il rapporto con il digitale

Per chiudere, il nostro consiglio (prima ancora di informarsi su regole e strategie utili a limitare l’uso degli schermi da parte dei nostri bambini e che accompagnino gradualmente a un utilizzo consapevole e responsabile) è quello di fare un’autocritica su quello che è il nostro rapporto con il digitale, individuando le criticità e, conseguentemente, cambiando i nostri comportamenti e stabilendo le regole che riguardano innanzitutto noi genitori.

Una riflessione finale

Quale sia la motivazione che ci spinge a impiegare il 25% della nostra vita davanti agli schermi è la domanda-chiave di questo spazio di auto-riflessione, perché va a sfatare un’affermazione che ci sentiamo ripetere da anni e che abbiamo fatto nostra, ma che non ha alcun fondamento ovvero: “Il problema non è il digitale, ma come lo usi”.

Questa affermazione sarebbe anche vera nel momento in cui noi avessimo un reale potere e controllo sugli schermi, ma così non è. Qualsiasi app è infatti progettata con l’obiettivo di catturare la nostra attenzione per più tempo possibile. C’è una branca della psicologia che studia da anni questo tema: si tratta della cosiddetta “captologia dell’attenzione”, detta anche “economia dell’attenzione”, poiché il business delle aziende ormai si basa proprio sulla capacità che ha di tenerci incollati agli schermi.

Senza addentrarci ora nelle strategie utilizzate per ottenere questo tipo di risultato, basta osservarci da fuori mentre utilizziamo gli schermi per capire come (esattamente come sotto l’effetto di una droga) non riusciamo a staccarci: video brevi e accattivanti, notifiche dei like e delle visualizzazioni, proposta continua di post e video che rispondono ai nostri interessi (momentanei o duraturi) e così via.

Insomma, tutto questo ci dice che non possiamo controllare l’esposizione al cento per cento, a meno che non siamo perfettamente consapevoli dei meccanismi così da disattivarli e sempre che abbiamo una forte spinta motivazionale a tenere sotto una certa soglia la nostra esposizione.

Foto da Freepik.

Alessandra Maltempo

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